lunedì 26 giugno 2023

"Dal primo all’ultimo raggio di sole" di Sura Bizzarri



Fu un raggio di sole a colpirlo, un fascio proiettato esattamente su di lui. Il cielo era nuvoloso, un transito discontinuo di cirri attraverso i quali occhieggiava il cielo.
Tutti lo guardarono, tutti guardarono quel neonato mingherlino, magro e lungo, stupiti dalla sua reazione. Si aspettavano il pianto, invece le sue labbra immature abbozzarono un sorriso.
Forse fu solo il caso, un riflesso incondizionato, una fortunata concatenazione dei movimenti ancora acerbi di qualche muscolo facciale.
Pablo, appena espulso dalla vagina di sua madre, schiuse la bocca in un sorriso sganasciato, fatto di gengive e muco, inondato di sole.
Il ginecologo, l’ostetrica, l’infermiera non ebbero bisogno di sculacciare il bimbo. Superato il canale della nascita, aperti i polmoni al primo respiro, lui cercò subito il capezzolo della madre e vi si avvinghiò con la meravigliosa intenzione di voler crescere, di essere arrivato da qualche parte e doversi adattare, caparbiamente, con la tenacia propria della sopravvivenza.
Crebbe in una famiglia umile, Pablo. Padre e madre coltivavano il terreno di un padrone. Lavoravano sotto il sole, con la pioggia, con le gambe piantate nel fango. Ricavavano grano, granturco, ortaggi, crescevano e macellavano animali. Alla fine di ogni mese dividevano i prodotti della loro fatica col proprietario delle terre. Il contratto si chiamava mezzadria, mezzo a me e mezzo a te. Non esistevano altre soluzioni per chi non possedesse niente.
Pablo viveva nella semplicità, sapeva accontentarsi di poco al punto che il poco ai suoi occhi pareva molto. Aveva ben chiare le regole della vita, c’erano cose che si potevano fare ed altre che proprio neanche si mettevano in discussione.
Pablo era stato cresciuto nella parsimonia. Il che non significava che la sua famiglia potesse esser tacciata di taccagneria, giacché ogni ospite o passante che avesse bisogno di una scodella a casa sua era certo di trovarla. Era cresciuto piuttosto nella cultura virtuosa della non dispersione delle materie, fossero esse cibo, calze o vestiti che, non andando più al figlio maggiore venivano passati al minore, attrezzi che, ben riposti lontano dalla pioggia non prendevano la ruggine e potevano conservarsi per l’uso successivo.
Gli avanzi della cucina, le bucce delle patate e ogni altro scarto andavano agli animali, l’acqua piovana veniva raccolta in grossi otri per poter essere utilizzata nei momenti di siccità.
Il piatto di Pablo, come quello dei genitori e dei fratelli, usciva dal tavolo pulito come vi era entrato; era buona usanza ripulire con una fetta di pane ogni avanzo di olio, sugo o piccola traccia commestibile. La farina veniva pestata e conservata nella madia per lungo tempo, in modo che si mantenesse libera da bachi o altre impurità. Tutto il loro piccolo mondo ruotava sulla povertà e sulla consapevolezza di dover fare buon uso delle materie a disposizione.
La storia irruppe nella loro vita con la fine della mezzadria e, si sa, nei momenti di passaggio qualcuno inevitabilmente rimane a piedi. Il padre si ammalò e in poco tempo la famiglia si dissolse così come si era sgretolata per loro la benchè minima possibilità di produrre reddito.
I figli grandi se ne andarono a cercar fortuna e Pablo, cocciuto e fermo sull’idea che si era fatto delle cose, rimase solo come un cane perseguitato dalla povertà ma mai accecato dalla rabbia.
Vagava attraverso fattorie e miniere, si rifugiava nei fienili e non aveva direzione, era guidato esclusivamente dalla sua resistenza, dalla intima consapevolezza che sopravvivere è un obbligo morale, che mille destinazioni si incrociano e sfuggono ma alla fine di ogni strada esiste una meta. Fu rifugiandosi in un carro di trasporto merci che inconsapevolmente raggiunse la città. Lì i suoi valori parevano non avere ragione, lì tutto era veloce e concitato, le case annerite dalla polvere del carbone erano alte e austere ma povere esattamente come quelle di campagna.
E la gente correva, gambe veloci, carrozze dalle grosse ruote calpestavano l’acciottolato duro che ricopriva la terra. Donne uomini e anche bimbi si rinchiudevano in fabbriche rumorose e, con la testa bassa, compivano movimenti meccanici sempre uguali, uno dopo l’altro, che se avessero dovuto contarli si sarebbero persi dopo pochi minuti.
Pablo era troppo ingenuo per avere accesso a qualsiasi ruolo in quella società, lui aveva altri ritmi, quel mondo era distante da lui e aveva bisogno di studiarlo per potervi trovare una sua collocazione. Il suo corpo era magro e lungo, i suoi occhi neri che divoravano tutto si guardavano attorno e consideravano la realtà. Dovevano trovare una ragione, una possibilità.
L’autunno avanzava e le sere si facevano fresche, era difficile trovare rifugi sicuri, le strade erano piene di borseggiatori. Pablo non conosceva che la categoria dei contadini, per lui ogni altra tipologia di persona era aliena, ma sapeva intravedere negli occhi della gente le loro intenzioni, capiva con un intuito straordinario di chi potersi fidare e sapeva evitare i malintenzionati.
Ma le regole della città non erano metabolizzabili per un bimbo solo, non avevano punti in comune con la sua vita precedente, non avevano smagliature che lasciassero spazio alla sua caparbia volontà di inserirsi in una qualsiasi bolla riconducibile alla sua essenza.
Fu garzone presso un fornaio, poche lire al giorno, la possibilità di mangiare e di dormire fra i sacchi di farina nel deposito seminterrato.
Fu aiuto muratore nella costruzione di una casa sghemba, alta e magra, proprio come lui, ma le sue braccia non erano abbastanza forti per i lavori più pesanti.
Fu portalettere per una compagnia assicurativa e strillone per la vendita di giornali.
Finché un giorno incontrò un anziano signore sgualcito e polveroso della polvere del tempo che attrasse la sua attenzione. Quell’uomo portava sempre un lungo cappotto sporco, parlava piano e a bassa voce ma soprattutto in lui si racchiudeva tutta la saggezza contadina che era la natura più intima di Pablo.
L’anziano sgualcito parlava di un mondo diverso, di una comunità di invisibili che aveva lo scopo di combattere la società snaturata dall’industria e dallo spreco, parlava di uguaglianza, di aiuto reciproco e della forza che solo il gruppo, unito e compatto, può contrapporre all’ingiustizia.
Fu così, affidandosi all’unica persona che avesse similitudini con la famiglia originaria, che Pablo fu risucchiato dalle viscere della terra. Lui, che tanto amava il sole e la vita all’aperto, imparò quanto fosse inimmaginabilmente confortante vivere nell’oscurità sotterranea della sua comunità di esclusi. Una folla strappata, sdrucita, organizzata come un formicaio operativo si era rifugiata nella grande fognatura cittadina per lavorare alla salvezza del mondo.
Quell’umanità brulicante e annerita di sporco condivideva l’esistenza coi topi e gli scarafaggi. All’interno di essa Pablo si muoveva agevolmente, sicuro nel buio esattamente come nella luce dei suoi campi. Probabilmente molti di quei poveri diavoli erano avanzi di galera, o persone sfuggite alla giustizia, poiché vivevano nel continuo bisogno di nascondersi. Ma erano una famiglia benevola, nella quale tutto veniva diviso equamente.
Pablo usciva la notte, a raccogliere avanzi di cibo, frugava nei bidoni accanto alle trattorie, nello sporco che veniva lasciato fuori dalle porte delle case e, come uno scarafaggio, trasportava il suo raccolto sotto il terreno che gli uomini calpestavano per l’intera giornata. Nelle notti orde di fantasmi leggeri come stracci al vento guidate da Pablo ripulivano la città di tutto quello di buono che era rimasto, ignorato dalla gente.
Il bottino era scarso e poco gradevole ma a lui interessavano le piccole cose, gli avanzi minuscoli, le briciole trasportate pazientemente dalle formiche.
In quel ragazzino magro e scuro affiorò la certezza assoluta che la ragione della sua esistenza fossero le sementi, le granaglie, quei minuscoli semi, tanti e piccoli, capaci di dare frutti impensabili, capaci di sfamare la gente. Pablo era probabilmente un biologo ante litteram.
I ritrovamenti più importanti, nelle sue perlustrazioni notturne, erano i semi, le briciole di cereali, tutto ciò che gli ricordava la sua infanzia agricola, il lento e attento ripulire dei piatti per catturare tutta la sostanza rimasta attaccata alle stoviglie.
E lui li conservava, quei semi così importanti, dopo averne data una parte in pasto ai topi, ormai suoi fratelli come le persone, ne catalogava una selezione e li racchiudeva in piccoli pezzi di stoffa, come fossero trofei, o reperti da conservare, memoria biologica della terra e dei suoi frutti.
Pareva un rifugiato, Pablo, uno studioso scampato a qualche calamità che ostinatamente conservava la memoria semplice della sua vita per tramandarla al futuro.Il suo corpo cresceva magro ma forte, la sua pelle continuava ad essere scura nonostante la mancanza di luce, i suoi capelli erano forti e lucidi di sporco, irti e robusti come i pennelli di cinghiale. La sua giornata era scandita da un lavoro di ricerca continuo di minutaglie alimentari, quelle che la noncuranza altrui lasciava cadere, la loro redistribuzione e la pianificazione per i giorni a venire. Pablo sapeva che a tutti è dato un periodo per stare nel mondo, sta a noi decidere di utilizzarlo al meglio, di fare la differenza. Lui aveva lo scopo di onorare la natura facendosi carico di recuperare ciò che veniva inutilmente dissolto. E il suo impegno era matematico, certosino, tanto era il suo bisogno di celebrare la cultura familiare di cui era profondamente imbevuto. A lui mancavano i corpi, i corpi dei fratelli stretti nel letto al suo busto magro. Mancava il loro respiro caldo sulla schiena e i loro ventri prominenti e le scapole e i movimenti inconsulti del sonno che si facevano scudo del suo corpo.
In quel mondo sotterraneo sporco e inospitale non c’era spazio per l’amore, il suo corpo ormai adulto non aveva mai conosciuto membra femminili. L’unico modo per colmare il suo bisogno di affetto era affidato ai corpi sporchi che condividevano con lui la tana che chiamavano casa, alla presenza dei topi che camminavano svelti ticchettando le zampette sulle tubature e di tanto in tanto si accomodavano vicino a lui, consci dell’aiuto reciproco del calore di contatto. E lui li amava quei topi misteriosi che scavavano ulteriori gallerie nell’immenso tubo nel quale abitavano. Erano esseri gentili, ai loro occhietti attenti non sfuggiva niente e niente rimaneva senza scopo, niente veniva sprecato. La loro esistenza era totalmente prevedibile, banalmente rassicurante; le loro zampette sempre fredde erano organizzate per raccogliere, accumulare, selezionare. Erano l’anello di congiunzione fra il presente, il passato che era l’inizio di ogni cosa e il futuro che si sarebbe fatto carico del mondo in divenire.
Erano trascorsi diversi inverni freddi e inospitali ed estati asfissianti di miasmi nauseabondi che ribollivano nella pancia della città. E quella pancia brulicava di vita, di lavoro, di malattia e di morte. Quella pancia conteneva sogni e punti di vista, ricordi maledetti e vite che lo erano altrettanto, dolori e delusioni, ma anche pensieri dedicati a chi sopra, sulla crosta assolata della terra, continuava una vita ordinaria e felice.
Cominciò la stagione delle piogge, dapprima con lievi rovesci che a stento picchiettavano la superficie delle cose, poi con fiumi d’acqua che risuonava, giù nel tubo, raccontando di vie martoriate dal picchiottamento continuo dell’acqua, da passi e ruote di carrozze che impietosamente rompevano gli specchi di pioggia depositata negli avvallamenti della pavimentazione.
L’umidità era insopportabile, il freddo entrava nel corpo e non c’era modo di allontanarlo. Le giornate trascorrevano fra coperte anch’esse umide e inospitali e il suono continuo del diluvio che scivolava e penetrava in ogni fessura. Persino i topi erano meno attivi, mezzi addormentati di noia. Il clima era impazzito, la pioggia incessante macerava le foglie e i giornali buttati per strada come tutte le cose vecchie e inutili. Sembrava che i monsoni fossero trasmigrati in occidente.
Il livello dell’acqua nella vecchia fognatura stava crescendo preoccupantemente, i giacigli venivano spostati giorno dopo giorno, quel rifugio era inospitale e non più sicuro, d’altronde non era possibile uscire allo scoperto.
Pablo arretrava continuamente gli incartamenti preziosi contenenti i suoi semi, se li teneva addosso, li nascondeva nelle fessure del basso soffitto, li custodiva con la cura che si dedica a un bambino, a una persona cara. Ma l’umidità raggiungeva quegli incarti rudimentali consumati dal tempo. Tutta la sua cultura, la passione che aveva impegnato tanti dei suoi anni stava marcendo nell’aria ormai quasi irrespirabile della grossa fognatura.
Qualcuno dice che niente è per caso, probabilmente anche Pablo lo credeva nel profondo di se stesso, perché la sua tenacia nel custodire quel tesoro importante era in attesa di qualcosa che avrebbe reso importante il suo lavoro. Era un’idea vaga, niente più ma qualcosa pulsava nelle sue tempie accese dal suono incessante dell’acqua che ingrossava il canale di scolo.
La natura, solitamente moderata e lenta nelle sue trasformazioni talvolta si scatena in eccessi furiosi che cambiano il corso delle cose. In quella lontana primavera i fiumi esondarono e il suolo non riuscì a reggere la portata delle piogge, una grossa frattura si aprì sopra l’asse portante della fognatura e una marea di acqua e fango travolse il rifugio dell’intera comunità sotterranea. Cose e persone furono investite da un’onda prepotente che li travolse e li trasportò fuori, sulla superficie anch’essa inondata.
La corrente era forte, spazzava tutto, quasi tutti persero la vita, l’aria sulfurea impregnata di carbone cadde a terra e il limo che proveniva dal fiume fecondò il terreno cosparso dei semi di Pablo. I topi, anch’essi spazzati via e annegati nel disastro d’acqua aprirono i loro ventri ricolmi di semi e l’intera città, ormai annientata e popolata solo di di mattoni frantumati e malta disciolta, fiorì in ogni dove di grano, erbe selvatiche, fagioli e granturco, meli e sequoie.
Il paradiso terrestre dell’infanzia di Pablo risorse nel tempo, disseminato su una superficie che sapeva reagire alla catastrofe, nella quale la natura riprendeva sorprendentemente il suo spazio invadendo i rottami delle case e fortificandovisi con le proprie radici. Le radici della vita.
Pablo, spazzato via in uno spruzzo feroce, nel momento in cui fuoriuscì dal tubo che l’aveva custodito per anni, come in una seconda nascita fu colpito da un raggio di sole obliquo, filtrato dalle nubi e diretto inevitabilmente sul suo corpo fluido. Lui sorrise, non era capace di fare altro davanti alla forza rigeneratrice del sole, mentre moriva in un brodo primordiale ricolmo di promesse per il futuro.

Buona luce a tutti!

© Sura Bizzarri