Salvatore Clemente: Fotografie
lunedì 13 marzo 2023
lunedì 30 gennaio 2023
"Stazioni" di Sura Bizzarri
L’odore di pioggia nei cappotti sventolati entra nelle sue narici assuefatte all’odore dei treni. E’un continuo alternarsi di viaggiatori. Passi veloci che si fermano per consultare l’orario, poi riprendono in corsette abbozzate per raggiungere il binario giusto, quello che li porterà a destinazione. Ormai lui conosce ogni tipologia di frequentatore della stazione centrale; gli studenti che si rincorrono coi piedi veloci, le scarpe da ginnastica lucide e consumate che volteggiano e frenano sul marmo antico del pavimento. I professionisti con la borsetta in mano, sempre pulita, appena rigonfia, ma non troppo, i tipi misurati dagli impegni cadenzati giorno dopo giorno.
E le ragazze che raggiungono il posto di lavoro; uffici, negozi, cinema, teatri. Ognuna col suo profumo, con la giornata accesa negli occhi come una lampadina a intermittenza. A loro si può leggere tutto sulla faccia, perché l’entusiasmo trasuda dal loro stesso incarnato.
Ma ci sono anche ragazzi sfatti che, a tarda sera, escono dal lavoro nei fast food e si portano addosso l’odore delle mille fritture, la noia di dover sempre assentire e volare fra i clienti, fra le padelle, fra il brusio di una folla che non ha volto.
Ci sono donne appesantite dagli anni e da borse capienti che si inghiottono thermos e sciarpe e portatrucchi, pannoloni dei figli, medicinali e ombrelli portatili. C’è la noia del quotidiano e il nervosismo di chi si appresta a un appuntamento.
Vite vecchie e nuove si avvicendano fra i binari lucidi di metallo consumato, arrivi e partenze, viaggi routinari di noia e cambiamenti improvvisi che portano anime diverse a incontrarsi piacevolmente, o a scontrarsi inaspettatamente.
Viaggi che conducono verso destinazioni di vita intraviste in un nuovo contratto di lavoro, nel cambio della città di residenza, nel raggiungimento di una persona lontana.
Lui le vive tutte quante, quelle emozioni; la sensazione di inadeguatezza o la pienezza delle proprie scelte. Il desiderio di chi vuol farsi piccolo per non essere visto e la sfrontatezza di chi si presenta agli altri con passo sicuro, viso sciolto, sorriso composto di compiacimento.
Lui è abituato ai drammi di chi beve e non riesce ad affrontare le sue scelte e a quelli di chi ha agito con troppa fretta, lasciandosi guidare dalla rabbia e dal risentimento.
Lui, Giovanni, nella sua vita precedente, nel continuo tentativo di stare al passo coi tempi, di essere esattamente quello che gli altri si aspettavano, di soddisfare ogni richiesta senza tradire le sue convinzioni aveva finito per essere schiavo del “dover fare”. Non esisteva un momento nel quale potersi sentire libero. Libero di non decidere niente, di ascoltare il silenzio, di pensare a qualcosa di diverso dal “fare”. Ogni suo attimo era proteso verso quello successivo, ogni aspirazione sorpassata dalla sensazione costante di essere in debito verso qualcosa o qualcuno.
Un macigno inconsistente di nebbia densa pesava sulla coscienza e impediva alla sua semplicità di essere se stessa. Ogni azione seguiva l’altra nella rincorsa di qualcosa che non aveva nome, nella intransigenza assoluta verso un dovere vago ma sempre presente.
Una goccia continua aveva scavato la positività, la generosità e aveva trasformato il suo essere sempre a disposizione in una gabbia che lo costringeva, in un busto che gli premeva sul petto fin quasi a soffocarlo. Fino a fargli decidere di interrompere il suo impegno familiare, civile, sociale. Fino a ridurlo come un uccellino che becchetta qualche briciola in inverno, fino a trasformare la sua vita in un letargo permanente.
Quando si ha paura di riflettere sui propri problemi, di affrontare una realtà che non ci appartiene più, a quel punto è più facile rifugiarsi nella vita degli altri, ascoltare i colloqui di ogni passante, spezzoni di telefonate, pensieri ad alta voce e attraverso essi catapultarsi in vite immaginarie, famiglie idealizzate, amori nascenti o moribondi, rapporti fra madri e figli, padri, nonni, amanti, assassini e boia, vincitori e vinti, perdenti e realizzatori di sogni. E gioire della gioia altrui quasi fosse la propria.
Giovanni era stanco persino di se stesso, ma non c’era modo di districarsi dalla propria identità. Eppure lui aveva trovato il modo di farlo vivendo ai margini, nell’incoscienza di sé per replicarsi e proiettarsi nella vita degli altri fino a stordirsene.
Tanto meno aveva aspettative per se stesso. Ormai si era staccato dalla vita, l’aveva lasciata in situazioni e luoghi lontani; la sua unica occupazione era soddisfare i bisogni primari e aspettare la pietà della morte, che lo avrebbe liberato definitivamente. Non aveva paura; ogni cosa nella sua vita era arrivata, aveva fatto il suo percorso, poi se n’era andata. Sarebbe stato così anche per la morte, un alito insolito si sarebbe portato via il suo.
L’ insonnia era guarita poiché non aveva più aspirazioni, progetti, niente che potesse provocare in lui la sensazione di stare in pena per qualcosa, aveva adottato la teoria del “lascia che sia”. Lui era oltre i problemi, aveva sorpassato ogni umana pena.
Fu in una notte di mezza estate, il caldo sospeso a schiacciare la città, la gente che rientrava dai locali, gambe femminili percorse da un sottile strato di sudore, odori che parlavano di vita, di cucine, di alcool, di erba. Giovanni era fuori, sul marciapiede antistante la stazione, in attesa della prima brezza notturna, dell’umidità che sale dall’asfalto, dai tombini, dai giardinetti ricolmi di carte di gelato e cicche gettate con noncuranza. Aveva una bottiglia di birra fra le dita, il gentile omaggio di uno qualsiasi dei compagni di vuoto proiettati verso l’inesistenza.
Giovanni evitava di ascoltare il brusio, di assecondare gli odori che sfilavano davanti a quel marciapiede ghettizzato, sdrucito di stracci e scatoloni aperti per improvvisare giacigli temporanei. Ogni giorno Giovanni evitava di introdursi definitivamente nelle situazioni, evitava scientificamente che una qualche reminiscenza di ricordo lontano affiorasse alle sue tempie, gonfiandone le vene, accendendo una seppur minima fiammella di speranza.
A lui la speranza faceva male, toglieva fiato, faceva si che il suo corpo si ribellasse attraverso eruzioni cutanee e scosse involontarie.
Quella sera la gente era tanta; c’era stato un concerto e ragazzi pieni d’entusiasmo affluivano a gruppi verso la stazione sostando sul marciapiedi. Per questo Giovanni decise di spostarsi nel piazzale adiacente e lì si distese, sul suo cartone, insieme ad un numero imprecisato di persone, che era lievitato rispetto a quello degli usuali frequentatori.
Il sollievo della brezza che cominciava a spirare dal fiume era familiare e quella sera i ricordi erano ostinati, tentavano di riemergere dalle galassie lontane dove tutto è oblio. Dopo tanto tempo Giovanni quasi si sentiva lusingato dall’emozione così pura che spontaneamente accendeva un lieve sorriso, ma la ricacciava senza cederle. Ormai la sua durezza nei confronti del passato era spietata, ormai era diventato ruvido, la sua scorza lo schermava dalle emozioni.
E lì disteso, col respiro calmo e le orecchie tese ai mozziconi di discorsi che si allargavano in cerchi sonori nell’aria, faceva tranquillamente il pieno dei sospiri, delle frasi, della voce altrui. Con gocce prima distratte poi perfettamente concatenate una pioggerella leggera aveva cominciato a punteggiare il piazzale. Lui alzava il volto verso il cielo per accoglierla e respirare l’odore di polvere che si alzava dal terreno. I ragazzi sciamavano con un brusio tranquillizzante, il grosso della folla si era dissolto e ogni compagno si stendeva sul suo cartone, incurante della pioggia, quasi essa avesse acceso una gioia collettiva.
Man mano che il cielo dal blu del crepuscolo affondava nel nero lo spazio si ridimensionava; la vita sembrava concentrarsi su quello scampolo di asfalto e sampietrini ancora tiepidi. Nuove figure si sdraiavano sul selciato come in un rito sciamanico, un inno alla notte.
L’avrebbero trascorsa lì, quella notte, fuori dalla stazione intasata di zaini e persone. La calma della città era scesa e aveva pervaso ogni coscienza.
Solo verso mezzanotte si udì uno schiamazzo in avvicinamento. Un gruppo poco consistente ma molto rumoroso procedeva barcollando, cantando canzoni sconosciute, inveendo contro la luna che occhieggiava attraverso la coltre di nubi ormai innocue. Il tepore stava scemando e i primi brividi della notte sfioravano la pelle ancora bagnata dalla pioggia da poco trascorsa. “ Er polacco, arriva er polacco!”
Una voce su tutte aveva pronunciato sommessamente queste parole e tanto era bastato a provocare un bisbiglio che si concatenava, un telefono senza fili che passava da un orecchio all’altro per raggiungere tutti, proprio tutti.
Giovanni non aveva idea di chi fosse il polacco ma si rendeva conto che tutti avevano paura. Silenzio. La porta della stazione ormai era chiusa, non avrebbero riaperto fino all’alba successiva. Non c’era che aspettare, tentando di farsi piccoli, di coprirsi il volto con una maglia, la camicia, un semplice pezzo di cartone ricavato da quello usato come giaciglio.
Er polacco si avvicinava con passo incerto, urlando, seguito da una corte composta di due uomini ubriachi almeno quanto lui. E brandiva una bottiglia rotta, passando fra i corpi distesi che non osavano muoversi. La paura era palpabile tanto quanto le gocce di sudore sulla pelle, quanto l’aria spessa della notte ancora umida della pioggia serale.
Pareva non avere sonno, quel polacco ubriaco che appena si reggeva in piedi. Camminava, camminava senza sosta fra i corpi e si soffermava qua e là, accanto a questo o quel povero cristo che non osava muovere un muscolo, che quasi smetteva di respirare.
C’era una donna, vicino a Giovanni, che gli faceva cenno di tacere, che gli si avvicinava strisciando sul terreno quasi potesse farsi piccola e riuscire a mimetizzarsi dietro il corpo dell’uomo.
Ma lui, Giovanni, non avvertiva prepotentemente quella paura generalizzata; era troppo abituato a non dar peso alle cose, a considerare l’oggettività della vita attraverso una sorta di ironia consolatoria. Giovanni aveva imparato a lasciare che le cose accadessero, senza neanche tentare di opporvi resistenza. Giovanni era riuscito ad essere solo, a non dover pensare agli altri. Non per questo era insensibile al dolore altrui o si negava all’aiuto di chi chiedesse il suo intervento.
Giovanni era un uomo gentile e volentieri protesse la donna che gli si era avvicinata facendole scudo col suo corpo. Con estrema naturalezza accoglieva chiunque lo avvicinasse e così avvolse nel suo cartone la donna che, tremante, cercava conforto alla paura.
Giovanni sorrideva appena, nel tentativo di consolare l’amica, quando il polacco gli si avvicinò barcollando pericolosamente. E dimenticò di smettere di sorridere quando il polacco lo guardò senza esitazioni, gli occhi negli occhi, col gesto di sfida dell’animale che vuole dimostrare la superiorità sul nemico inerme.
Giovanni non dette peso a quell’approccio insidioso, non calcolò la traiettoria del braccio del polacco, tanto era proteso a custodire l’integrità della donna e a considerare quella strana condizione come un insignificante insolito momento passeggero.
Tutto arriva, fa il suo corso, poi finisce.
Giovanni non suppose minimamente che la bottiglia rotta avrebbe potuto conficcarsi nel suo petto ed aprirlo, macchiando di rosso i sampietrini già umidi della pioggerella serale. Né immaginò che la loro superficie porosa avrebbe potuto assorbire sorprendentemente il liquido denso del suo sangue. Si limitò a coprire la compagna con quel suo corpo che era diventato la sua buccia, la sua scorsa. E pensò che quella cortina così spessa, sporca, ruvida come il mallo della noce, sarebbe stato il mezzo ideale in grado di proteggere lei dagli sguardi, dal freddo, dal mondo esterno.
Giovanni non si chiese se la donna che stava accudendo lo avrebbe ringraziato del suo sacrificio, né se avrebbe tentato di bloccare il flusso del sangue e provare a tamponare la lacerazione del suo ventre. Giovanni, semplicemente, lasciò che le cose accadessero.
Lui non aveva paura della morte e quasi non si accorse della ferita che si allargava in una macchia umida e pulsante. Senza smettere di sorridere, con la consapevolezza di raggiungere quel niente che tanto lo attraeva, lasciò il suo corpo arrendersi alla fuoriuscita dell’alito caldo della vita.
Buona luce a tutti!
© Sura Bizzarri
domenica 13 novembre 2022
domenica 11 settembre 2022
lunedì 5 settembre 2022
domenica 10 luglio 2022
"Pecore nere" di Sura Bizzarri
Una distesa di colori, asciugamani, giovani donne e persino ragazzini che giocano con le biglie. E il profumo dolce delle creme solari. Voci, musica, brusio. E lo stesso groppo allo stomaco del primo giorno al mare.
Sagome sottili, capezzoli induriti dopo il bagno, aguzzi come baionette, abbronzature audaci dalle quali occhieggiano squarci di pelle bianca, segreta.
Sotto a tutto questo, nel mare scomposto di tanta gente, il brusio di sottofondo, come il suono di un altoparlante acceso. E le immagini di quello che verrà.
L’aria è troppo luminosa e lo svolazzare dei parei e dei vestiti leggeri è qualcosa che confonde e accavalla le informazioni. Praticamente irresistibile, nonostante sia incommensurabilmente bello.
Bobo torna indietro, meglio andare verso gli scogli, dove le dimensioni e i movimenti sono meglio accettabili e le ragazze sfuggono, si dissipano, evaporano nei pensieri piuttosto che essere reali.
Perché il brusio ha bisogno di essere regolato fino a raggiungere il punto in cui il segnale è chiaro e nitido. Come la rotella di regolazione della radio che si aggira fra le frequenze fino a trovare quella limpida. La spiaggia è una distesa senza barriere. Lo scoglio è meglio gestibile, soprattutto nell’affollamento estivo; ci sono alture e avvallamenti, e buchi fra i sassi.
Da lì le vibrazioni disturbanti possono sfuggire, allontanarsi, o anche perdersi. Ogni volta il brusio è un sintomo, una strada che si arrampica e guida altrove, seguendo una direzione che non era prevista. Dopo il brusio arrivano la forma e il colore.
Sugli scogli un gruppo di ragazzi, la stessa età di Bobo, eppure così tanta distanza. Gli stessi discorsi, senza importanza, più o meno come quelli dei genitori, dei prof, delle ragazze irraggiungibili.
Sono pochi i ragazzi coi quali Bobo trova sintonia, quando il ronzio si stabilizza in un suono chiaro, o nel silenzio assoluto. E quel silenzio, ogni volta che si verifica, corrisponde al colore verde e all’equilibrio assoluto delle frequenze. Quel colore si deposita sulla persona individuata, quella sulla quale la lancetta incorruttibile dello strano strumento mentale di Bobo ha trovato chiaramente e indubitabilmente la frequenza.
Fra tutte le peculiarità che compongono le persone, che non ne esiste una corrispondente all’altra per mille sfaccettature, mille piccole varianti che danno origine a individualità infinite, lui individua proprio quella, il particolare stato d’animo, la cura emotiva che gli si presenta sotto forma di un colore. Bobo è certo di questa sua capacità, come un rabdomante ha la sicurezza dell’attendibilità del suo bastoncino; la maggioranza delle persone lui le lascerebbe andare come barche che si allontanano, solo con poche di esse sente che non sarà mai possibile lasciarle andare davvero, neanche quando hanno deciso di farlo.
In quel momento, nessuno dei ragazzi aggrappati sullo scoglio a picco sul mare sembra avere qualcosa in comune con lui, nessuno sembra possedere un guizzo, una particolarità che lo distingua dagli altri. Le solite parole, la noncuranza dell’abitudine, la spicciola enunciazione di nomi e cose e gesti stereotipati.
I volti dei ragazzi sono rivolti all’orizzonte, i loro capelli spioventi sul viso disegnano ombre e strane angolazioni di luce. Il ragazzo verde, quello dove è caduto il radar metafisico di Bobo, guarda lontano, le dita intrecciano un sottile nastro di stoffa, il sudore gli cala dalla fronte e la bocca annoiata biascica parole a bassa voce mentre il colpo dell’onda copre in parte la conversazione.
Il fumo delle sigarette, anch’esso privo di interesse, è solo un’abitudine malsana portata avanti per inerzia. Fra parole rade, spazzate via dagli spruzzi dell’acqua.
Il pomeriggio è il momento più difficile, la porzione più lunga del giorno, la più uggiosa.
Il caldo è pesante, la solitudine sembra infinita, le speranze si affievoliscono nell’inevitabilità dell’attesa. I pensieri si appiattiscono sulle spiagge lontane, disseminate di corpi sonnolenti in attesa di quello che verrà, la sera, fuori, nei locali, per strada.
Bobo studia il ragazzo verde e lo trova quasi antipatico. Bello, sicuro, apatico. Sputa boccate di fumo e gli altri lo guardano. Evidentemente è il leader, il capobranco, quello che detta il programma nell’estate sonnolenta di chi non è turista ma abita nel bene e nel male quella terra di mare.
Un primo ragazzo, alto e snello si alza sullo scoglio caldo e improvvisamente si tuffa. Il suo stile è buono, è quello di chi è cresciuto nell’acqua. Gli altri lo seguono in salti scomposti, senza esibizionismo, solo con la voglia di giocare che nasce da uno spruzzo, da un gesto, dalla meravigliosa condizione di essere giovani.
Il ragazzo verde resta a guardare, sorride, incita gli amici a tuffarsi di nuovo, li sprona a picchiottarsi vicendevolmente e loro si spingono, si abbracciano nel lasciarsi cadere in acqua, compiono contorsioni miracolose. Bobo li invidia, solo un po'. Ma proprio non riesce a capire come il suo radar possa aver individuato quel tipo così sicuro e annoiato che non dimostra un minimo di empatia, di compassione verso chicchessia.
Un vecchio cane arriva scodinzolando annusando ogni anfratto; si sofferma in una piega della roccia a graffiare con le sue unghie spesse per scrostare qualcosa rimasta attaccata sulla superficie rovente. I ragazzi lo scimmiottano mentre cercano di inventare qualcosa che faccia trascorrere l’interminabile pomeriggio. Chi dice che i giovani non si annoiano forse non è mai stato giovane.
Bobo non si chiede come sia capitato proprio lì, ormai sa per consuetudine come i suoi passi siano guidati dalla frequenza che lo chiama e diventa un pungolo irresistibile, un desiderio che deve essere appagato. E continua a osservare quella scena usuale, che non da adito ad alcun sentimento, che non rivela nessuna azione straordinaria. I ragazzi nuotano, semplicemente. Quello verde si è sdraiato sul suo asciugamano sgargiante e con un cappello che gli copre mezza faccia li segue di sottecchi lanciando ogni tanto qualche grido di incitazione. Il cane lo sorpassa e se ne va, carico di pelo ispido, di gambe incerte, di anni trascorsi. Qualcuno torna dal bagno, col fiato grosso per risalire la roccia, il petto che sussulta, si lascia scaldare dal sole inferocito.
Il ragazzo verde si muove pigramente, consulta il suo cellulare, spippola i messaggi, le immagini, ascolta musica che si alterna senza continuità.
Poi scatta quell’ora così calma e vuota in cui i pensieri si confondono l’uno con l’altro e uno strano benessere soporoso si impossessa della coscienza. Il suono delle onde diventa una litania che scivola in un vortice quasi sensuale, il rumore di voci lontane innesca sogni in cui i fantasmi del passato si fanno presenti e incarnati, quasi persone ormai lontane fossero ancora lì accanto, quasi le si potessero toccare allungando la mano. Un richiamo, da lontano, una mano che fa cenno dal mare che si è ingrossato. E’ il ragazzo alto e magro, quello che si è tuffato per primo che gioca fra le onde e indica gli altri. Il ragazzo verde lo percepisce appena, sorride con lo sguardo che non è più lì, troppo bello crogiolarsi fra le gioie e i dolori di quello che ormai è passato. E lo scoglio isolato, frequentato solo da pochi ragazzi del posto, è il luogo ideale dove dedicarsi al niente.
Anche Bobo si lascia cullare dalla dolce sonnolenza dell’inutile pomeriggio finché il suo sguardo ormai privo di attenzione nota quella macchia di colore, che per lui è una certezza intensificarsi e circondare perfettamente il profilo scolpito del ragazzo semi sdraiato.
Allora il suo torpore comincia a bucarsi, gli orli smangiucchiati dalla consapevolezza che qualcosa sta per accadere. Ma non riesce a comprendere, niente sembra cambiare, nessun segnale indica che qualcosa stia per accadere. Eppure una strana tensione si risveglia, il calore abbandona improvvisamente il suo corpo e il sudore diventa freddo. Il ragazzo verde ora è verdissimo, quasi fosforescente e il suo corpo innesca un ritmo diverso. I muscoli si tendono, le gambe si irrigidiscono, come quelle dei felini, pronte per il balzo.
Gli altri giocano ancora fra le onde, le grida attutite sono appena comprensibili ma gli occhi del ragazzo verde guardano altrove, nel mare scintillante che si increspa e si avvolge su se stesso. Lontano, una macchiolina mobile si dibatte, annaspa, sparisce e riemerge, completamente senza suono. Forse un vecchio legno reduce dell’inverno precedente, sembra distendersi sul pelo dell’acqua ma una corrente lo risucchia, lo porta indietro, non lo lascia avanzare.
Il profumo di salsedine si è intensificato con l’ingrossarsi dello sciabordio che si rompe sugli scogli, il suono profondo del mare si è incupito e gli schiaffi delle onde sprigionano schiuma che lascia scoppiare le sue bollicine fragranti. I ragazzi guardano senza vedere, valutano se sia possibile raggiungere quel tronco levigato che emerge con fatica per essere subito mangiato dal mare in ebollizione. Le onde grosse, la sfida del pericolo, il gioco trascinato allo spasimo.
Ma il ragazzo verde calcola, intensifica lo sguardo, i sensi allo spasimo. Sente che qualcosa si è rotto, che il pomeriggio sta perdendo i suoi connotati, percepisce l’odore sinistro della tragedia. Richiama gli altri con un urlo potente, un gesto secco, ritto come una molla saltellante sullo scoglio rovente. Cerca di capire, ma il tempo è necessariamente poco.
Ci sono momenti che non danno tregua, non concedono ripensamenti. Bisogna capire, ragionare freddamente, lasciare andare le ombre del passato e agire.
Il ragazzo verde corre sugli scogli spigolosi con l’abilità di un funambolo, schiva le punte aguzze, il suo corpo magro vola nelle correnti d’aria per giungere al punto più vicino al legno che affiora. E senza pensarci, senza un attimo di esitazione si tuffa nella schiuma che tenta inutilmente di sbatterlo contro la roccia.
La sua bracciata è efficace, il suo stile sa districarsi fra le correnti, sa evitare i mulinelli che lo osservano come occhi concentrici. Lui non si lascia convincere, non esistono canti di sirene che possano fermarlo. E man mano che si avvicina al grosso tronco levigato scorge una pennellata di colore. Il rosso di un costume da bagno affiora di tanto in tanto dal ribollire di schiuma che frigge e schiocca e corre lontano rollando sulle onde sottostanti.
Il ragazzo verde conosce bene il suo mare e la paura è un sentimento che non gli appartiene. Tuttavia ha imparato ormai da molti anni ad essere saggio quando ha a che fare con lui. Ha imparato a rompere l’onda, ad attraversarla trasversalmente, a cavalcarla per farsi trasportare lontano.
In poco tempo raggiunge il tronco col costume. Un tronco sfinito, quasi paonazzo, che non ha neanche la forza di aggrapparsi al suo corpo forte.
Allora cerca di sostenerlo, di far affiorare la sua bocca di ragazzo legno in modo che possa ossigenarsi. Cerca in ogni modo, con bracciate cadenzate in concomitanza della forza motrice dell’onda di emergere dal vortice che ha imparato ad affrontare.
Il cerchio attraente, l’occhio del mulinello è stato superato. Nell’acqua relativamente calma il ragazzo compie uno sforzo tremendo ma necessario per consentire al ragazzo albero di mantenere la testa alta, di respirare. Con fatica procede verso gli scogli senza mai guardarli, la sua concentrazione è polarizzata dal momento; un’onda dietro l’altra, una spinta dietro l’altra, un metro per volta. Questo è l’unico modo per non arrendersi. E quando sente la forza propulsiva della corrente farsi più regolare, cadenzata e calcolabile capisce di aver quasi compiuto la sua missione.
Il ragazzo albero ora giace nell’avvallamento dolce di una roccia piatta. Bobo assiste da lontano, incapace di capire come il suo radar possa essere infallibile, come fra la folla, spesso indistinguibili dagli altri, si nascondano individui verdi.
Non esistono santi, ognuno di noi può esserlo. Esistono persone capaci di mettersi in gioco, di concepire se stessi come rotelle di un ingranaggio più grande. Talvolta possono sembrare diversi, mantenersi in disparte, come Bobo, altre volte si mimetizzano perfettamente fra gli altri.
Sovente vengono chiamate pecore nere.
Buona luce a tutti!
© Sura Bizzarri
martedì 17 maggio 2022
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